I romanzi invece sanno descrivere benissimo le infinite pieghe dell’animo umano ma, prima di presentartele, ti costringono a sciropparti pagine e pagine del tipo: “All’orologio della torre battevano le ore di un afoso pomeriggio di agosto. Le mosche impazzite erano le uniche a trovarsi a proprio agio in quell’aria infuocata e immobile che opprimeva la pelle sudaticcia”.
Ecco, l’ho detto e mi confesso colpevole. Però sono fatto così. E vengo al romanzo di Célin. Ce l’ho messa tutta ma non ce l’ho fatta. L’autore mi interessava per il gran parlare che se ne fece a suo tempo e se ne fa ancora, però questo romanzo è sconclusionato, squinternato, inverosimile e a tratti anche paranoico. Vedi per esempio il capitolo in cui viene descritto l’assurdo viaggio per mare dalla Francia alla colonia in Africa. Anche la descrizione del negozio da rigattiere che il protagonista va a gestire in mezzo alla giungla sembra più il prodotto di un trip stravolgente che una vicenda possibile ancorché insolita.
Ho cercato di costringermi a continuare la lettura fino in fondo, ma è stato più forte di me. Posso capire che il turpiloquio sparso a piene mani nel libro abbia potuto scandalizzare i lettori del tempo di Célin, ma al giorno d’oggi lo ritroviamo anche sulla bocca delle educande presso le Orsoline quindi non fa più nessun effetto. Certo, ho trovato anche brani stupendi come quello che riporto qui sotto, ma sono troppo rari per compensare il tempo e la fatica necessari per trovarli:
“I tramonti di quell’inferno africano si rivelavano straordinari. Non te li toglieva nessuno. Ogni volta tragici come mostruosi assassinii del sole. Un immenso bluff. Soltanto che c’era troppo da ammirare per un uomo solo. Il cielo per un’ora si pavoneggiava tutto spruzzato da un capo all’altro d’uno scarlatto delirante, e poi il verde scoppiava in mezzo agli alberi e s’innalzava dal suolo a strisce tremanti fino alle prime stelle. Dopo di che il grigio riprendeva tutto l’orizzonte e poi di nuovo il rosso, ma allora stanco il rosso e non per molto. Finiva così. Tutti i colori ricadevano a brandelli, afflosciati sulla foresta come vecchi stracci alla centesima replica. Ogni giorno verso le sei era esattamente così che andava”.
“Sulla destra della panchina s’apriva per l’appunto un buco, largo, direttamente sul marciapiede tipo il metrò da noi. Quel buco mi parve adatto, grosso com’era, con dentro una scala tutta di marmo rosa. Avevo già visto molta gente per strada sparirvi e poi tornarne fuori. Era in quel sotterraneo che andavano a fare i loro bisogni. Capii sùbito come girava. In marmo anche la sala dove capitava la cosa. Una specie di piscina, però svuotata di tutta l’acqua, una piscina infetta, colma soltanto d’una luce filtrata, fioca, che veniva a smorire là sugli uomini sbottonati in mezzo ai loro odori e tutti paonazzi a sbrigare le loro sporche faccende davanti a tutti, con rumori barbari.
Tra uomini, così, alla buona, fra le risate di tutti quelli che erano intorno, accompagnati da incoraggiamenti che si scambiavano come al football. Prima si levavano la giacca, come per fare una prova di forza. Si mettevano in tenuta insomma, era il rito.
E poi tutti sbracati, ruttando e peggio, gesticolando come nel cortile dei matti, s’installavano nella caverna fecale. I nuovi arrivati dovevano rispondere a mille scherzi schifosi mentre scendevano i gradini dalla strada; ma sembravano tutti compiaciuti lo stesso.
Quanto più lassù sul marciapiede si comportavano bene gli uomini, formalmente, tristemente anche, tanto più qui la prospettiva di potersi svuotare le trippe in tumultuosa compagnia sembrava liberarli e rallegrarli intimamente.
Le porte dei gabinetti abbondantemente imbrattate pendevano, divelte dai loro cardini. Passavano dall’una all’altra cella per chiacchierare un po’, quelli che attendevano un posto vuoto fumavano dei sigari pesanti battendo sulla spalla dell’occupante al lavoro, lui, ostinato, la testa corrugata, rinchiusa fra le mani. Molti ci facevano dei forti gemiti come dei feriti o delle partorienti. Minacciavano gli stitici di torture ingegnose.
Quando uno scroscio d’acqua annunciava un posto vacante, raddoppiavano i clamori attorno all’alveolo libero, e allora sovente se ne giocavano il possesso a testa o croce. I giornali appena letti, anche se spessi come piccoli cuscini, finivano istantaneamente disciolti nella mota di quei lavoratori rettali. Si distinguevano male le facce per il fumo. Non osavo troppo avanzare verso di loro a causa degli odori.
Quel contrasto era proprio fatto per sconcertare uno straniero. Tutto quello sbracamento intimo, quella formidabile familiarità intestinale e in strada quella perfetta aria contegnosa! Ci restavo stravolto”.
È fuori discussione che questo romanzo rientri a pieno diritto nelle sgradevolezze della modernità, ma io non l’ho trovato per niente comico, esilarante. Casomai deprimente e sgradevole. Con la migliore buona volontà ho cercato il riso liberatorio ma non l’ho trovato. Colpa mia, naturalmente.
Il linguaggio di Célin è realistico, si dice. Certo, ma non è mica detto che quello che è realistico sia per ciò stesso anche interessante e piacevole.
In una recensione ho trovato scritto: "Nasceva così Voyage au bout de la nuit, e oggi che il secolo sta finendo fra tragedie e farse d’ogni genere, ci appare sempre più chiaro che questo è il romanzo che l’ha meglio capito e rappresentato, che il consapevole delirio céliniano ne ha saputo cogliere come nessun altro gli aspetti fondamentali:
A questo punto è quasi superfluo aggiungere che, dopo questo ennesimo tentativo fallito, il mio apprezzamento per i romanzi non ha subito variazioni di rilievo... :-)