Lettere scambiate con Giorgio Almirante

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Roma, 8/7/1976

Caro Giorgio,

sono un elettore di destra che si ritrova con una gran rabbia in corpo, un profondo senso di frustrazione e una gran voglia di sfogarsi con qualcuno. Perché non farlo, quindi, con la persona più qualificata, con il segretario del partito? So benissimo che in questo periodo devi essere assillato da molte preoccupazioni la cui natura, del resto, non dovrebbe essere estranea al contenuto della presente.

Si tratta di questo: la grande e forse irripetibile occasione della Destra è sfumata miseramente. Gran parte degli Italiani, nauseata dall'ignobile carnevale degli eunuchi pappanti, non desiderava altro che esprimere contemporaneamente il proprio anticomunismo e la propria volontà di cambiamento. Ha espresso, invece, soltanto il primo. Perché? La risposta a questo interrogativo è di fondamentale importanza in quanto permetterà, oltretutto, di discriminare gli "ometti" dagli uomini veri. I primi, infatti, si affanneranno ad imbastire alibi, a cercare attenuanti, ad attribuire l'insuccesso alla congiura contro la Destra, alla TV, ai gesti sconsiderati di qualche scalmanato irresponsabile. In altre parole asseconderanno l'innata italica tendenza ad attribuire a cause esterne i nostri copiosi malanni: le invasioni straniere, il Papato, il nord che di proposito tiene il sud in condizioni di sottosviluppo, la crisi petrolifera, ecc.

Gli altri, gli uomini veri, si terranno invece ugualmente distanti dai due estremi rappresentati dal narcisismo e dall'autocommiserazione, daranno il giusto peso alle suddette spiegazioni che contengono indubbiamente la loro parte di verità, ma non più di tanto. Cercheranno, piuttosto, nel proprio campo le cause prime della sconfitta, scavando impietosamente in profondità. Quale significato politico può avere, del resto, il discorso fatto da Tedeschi in TV, che adesso ci sono rimasti i coraggiosi tutti di un pezzo che si faranno eliminare fisicamente piuttosto di… ?

Se fossimo capaci di rinunciare all'indulgenza nel giudicarci e di portare avanti un'autocritica severa, dovremmo cominciare a domandarci perché la tua oratoria, indubbiamente brillante, affascina ma non convince, perché il numero dei presenti ai nostri comizi cresce mentre quello dei nostri parlamentari diminuisce. La mia modesta opinione è che a noi sembra spettare la stessa sorte riservata alle amanti: apprezzatissime nell'alcova ma impresentabili in società, dove trionfano, invece, le adipose od ossute consorti! E di nessunissima utilità politica sarebbe mettersi a discutere se questa impresentabilità sia effettiva o presunta. L'unico dato politicamente valido è che gli elettori la credono reale e non prestano fede alle nostre reiterate assicurazioni di democraticità.

Certo, potremmo consolarci pensando che il popolo è bue, il che è in gran parte vero, ma la nostra posizione non migliorerebbe poiché rimarrebbe pur sempre dimostrata la nostra incapacità di essere bravi cow-boy. La verità è che non si può portare, a sostegno della nostra asserita democraticità, l'argomento dei trent'anni di congressi, di elezioni, di liberi dibattiti. Questo argomento è doppiamente fasullo: sul piano della logica perché non garantisce assolutamente nulla circa il nostro comportamento una volta arrivati al potere e, soprattutto, sul piano politico in quanto, se valido per noi, lo sarebbe altrettanto per il PCI il quale ne fa appunto largo uso. Non si può neanche affermare che il fascismo è finito trent'anni fa e che quindi l'antifascismo non ha più ragione di essere. Molti Italiani sono ormai capacissimi di distinguere tra il concetto di "periodo storico", lapalissianamente concluso, e quello di "sistema politico" riproducibile in qualsiasi momento ove siano presenti certe condizioni. Né si può dire: "Eravamo in buona fede, puliti, onesti, volevamo l'Italia grande e rispettata". Non si può dire perché non è in discussione la posizione "psicologica" dei singoli ma il giudizio storico-politico sul sistema.

Quando tu dici di apprezzare altamente la libertà e di non essere disposto a rinunciarci per niente al mondo, non fai altro che impostare un discorso che andrebbe portato fino in fondo senza reticenze. E siamo arrivati al punto cruciale. La mia convinzione, da prendere per quello che vale, è che la Destra stia morendo per autosoffocamento, per l'incapacità fin qui dimostrata di darsi una coerente piattaforma ideologica costruita su ampi spazi culturali, su grandi strutture di pensiero. Il nostro male oscuro è la mancanza di cultura, non quella togata, accademica, delle mummie parlanti, ma quella reale identificantesi con l'attitudine a studiare e ad approfondire i problemi per cercarne soluzioni ragionate e coerenti. Cultura è progetto che precede la costruzione, è piano strategico che precede la battaglia. In breve, è pensiero e riflessione. La nostra matrice ideale, purtroppo, è ben diversa, si identifica con il mussoliniano "Il fascismo nacque da un bisogno di azione e fu azione. Mancava la dottrina ma c'era, a sostituirla, qualcosa di più decisivo, la fede". Ed anche l'altro "L'idea più potente… che si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di UNO".

Siamo orfani da gran tempo ma non ci decidiamo a diventare adulti. Andiamo avanti con grande entusiasmo, alla garibaldina, ma il nostro fuoco è come quello della polvere da sparo quando brucia all'aria aperta, bello a vedersi ma senza conseguenze. La Destra si è ridotta a combattere soltanto la battaglia anticomunista in nome di un ideale, quello della libertà, che oltretutto è soltanto suo figlio "adottivo". Ecco, secondo me la gente diffida di noi perché avverte che il nostro materiale umano è rimasto quello di sempre, meravigliosamente capace di fede e di sacrificio ma anche di prepotenza e di violenza. Questa nostra immagine viene confermata e rafforzata, se ce ne fosse bisogno, anche da certe trasmissioni televisive in cui certi nostri parlamentari si esibiscono in mortificanti show di intolleranza e di emotività incontrollata, veri e propri Caroselli pubblicitari organizzati, si direbbe, da un regista nostro avversario per dimostrare visivamente quanto siano "fascisti" i missini. Montagne intere di doppi-petti non basterebbero per attenuare l'effetto deleterio prodotto da queste gazzarre televisive in cui la forza della voce cerca inutilmente di sostituire quella degli argomenti.

Sono molto pessimista, caro Giorgio, circa la nostra capacità di sollevarci in modo da riuscire a vedere l'intera foresta e non più soltanto l'albero isolato. Per riuscire a tanto, forse bisognerebbe fondare una Nuova Destra e organizzare una Costituente del pensiero di Destra, ma ho il forte dubbio che finirebbero per parteciparvi soltanto i soliti pavoni esperti in logomachie erudite. Guarda la sorte toccata alle stesse opere di Evola che, anziché essere utilizzate come formidabile spunto per l'approfondimento di certi problemi fondamentali, sono state subito trasformate in libri sacri dai cosiddetti Balilla del Graal capaci soltanto di giurare in "verba magistri".

Forse bisognerebbe cominciare a pensare ad un gruppo ridotto di persone che portino avanti un lavoro da Laboratorio sperimentale delle idee, con rinuncia totale alla vanità intellettuale che rende quasi sempre sterili i dibattiti tra "gli addetti ai lavori". Penso anche a gruppi di uomini, liberamente associati, che traducano in modello sociale vivente le idee messe a punto da questa specie di Areopago. Questi gruppi, oltre che rappresentare una possibilità di realizzazione individuale per i singoli componenti, darebbero alla massa la dimostrazione concreta di come funzionerebbe una società organizzata secondo i principi della Destra. Altro che comizi, manifesti e tribune elettorali! A quel punto i "superiori principi" cesserebbero di essere soltanto pura esercitazione retorica e si trasformerebbero in organizzazioni vive e palpitanti, in grado di esercitare un irresistibile potere di attrazione e di persuasione. A quel punto al partito non rimarrebbe altro compito che raccogliere i consensi ed amministrarli adeguatamente in sede parlamentare. I suddetti nuclei sociali di Destra non dovrebbero vivere in conventi costruiti sul cucuzzolo dei monti, dovrebbero, al contrario, essere calati nel vivo del corpo sociale e svolgere concrete attività di produzione, di studio, di ricerca, sportive, ecc.

Evidentemente sto sognando, ma è peccato sognare? Queste sono le cose che ho nella mente. Nelle orecchie, invece, ho soltanto i soliti, elementari e rozzi appelli anticomunisti, gli slogan cretini come "Non rinnegare e non restaurare", le interpretazioni storiche criminali come quella che vorrebbe morti di fame gli ebrei dei campi di concentramento nazisti.

Sia ben chiaro che non ho soluzioni belle e pronte da proporre, so soltanto quale è la direzione lungo la quale andrebbero cercate, con applicazione, studio e fatica. Temo però che oramai il tempo a disposizione per quest'opera di messa a punto ideologica sia veramente poco. Gli invasati dell'azione avranno presto facile gioco nel sostenere che non è più tempo di discussioni, che per pensare bisogna prima sopravvivere, ecc. Saranno perfettamente in linea con la tradizione mussoliniana: "Venne condotta la lotta contro… La dottrina sorgeva tumultuosamente, sotto l'aspetto di una negazione violenta e dogmatica".

Quando gli apostoli del "pugnal tra i denti e le bombe a mano" dicono: "Bando alle ciance, è tempo di lotta!" mettono in atto un ricatto vero e proprio, simile a quello dei democristiani che aspettano le elezioni per dire: "Manca solo il 3% dei voti e l'Italia diventa comunista! È questo che vuoi?". E prima, cosa hanno fatto per evitare che si giungesse a tanto? In realtà questo ricatto è in entrambi i casi la spia di una congenita incapacità di essere onesti, nel primo caso, e di pensare, nel secondo.

Terrei molto a conoscere la tua personale e schietta opinione su quanto sono andato dicendo in maniera forse confusa ma con passione sincera. Se poi tu dovessi decidere che non ne vale la pena, pazienza! Vorrà dire che la presente è servita a me come sfogo.

Con i miei più cordiali saluti. Romano Badiali.

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Roma, 15/7/1976

Caro amico,

ti ringrazio per la tua bella e intelligente lettera; e sono lieto che tu abbia deciso di sfogarti con me, anche perché raccogliere gli sfoghi degli amici fa parte, direi, dei miei compiti istituzionali.

Non credo che sia sfumata "miseramente" la grande e forse irripetibile occasione della Destra. Certo, gli elettori non hanno colto una grossa occasione, ma che essa sia l'ultima proprio non credo, né mi pare che il "miseramente" rispecchi la reale nostra condizione. Mi sono chiesto anche io se la mia oratoria riempia soltanto le piazze e non arrivi alle intelligenze e alle coscienze; e ne ho sofferto. Ma poi ho considerato, secondo verità, che coloro che ascoltano e applaudono in piazza sono poi coloro, in larga maggioranza, che votano e incitano a votare. Mentre non riusciamo a giungere nelle case, malgrado le rare apparizioni alla TV, e soprattutto non arriviamo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei locali di spettacolo. La sproporzione, quanto a strumenti di informazione e di deformazione della pubblica opinione, è spaventosa ai nostri danni. Ma ciò non vuol dire che la causa sia perduta. In primo luogo, e il mio non è idealismo, si combatte senza smarrirsi anche senza la minima speranza di successo, perché il successo e l'insuccesso debbono sempre essere considerati in prospettiva. Può darsi che io stia combattendo per il mio insuccesso personale ma è certo che io sto seminando per il successo futuro, per il germoglio di altri che, grazie a noi, potranno respirare in italiano. Ripeto, non è idealismo; è, anzi, autentico realismo politico se far politica significa guardare con serietà e con impegno ai destini del proprio Paese.

Non hai torto quando indichi nella povertà culturale uno dei vizi di fondo della Destra ma avremmo torto se volessimo ideologizzare il nostro partito. Il problema più grave che abbiamo dinanzi è quello della educazione delle giovani generazioni. Farò ogni sforzo, nei limiti purtroppo ristretti in cui possiamo operare, per affrontare questo problema. Ti prego di scusare se non rispondo a tutto. Se ne potrebbe parlare, se verrai a trovarmi.

Un cordiale saluto, Giorgio Almirante.

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Roma, 23/7/1976

Caro Giorgio,

la tua risposta mi è giunta gradita per tre motivi: è cortese, è stata sollecita, era inaspettata. Non che io avessi di te un'idea di persona incivile ma, con la maretta che sta agitando il partito in questo periodo, non immaginavo che avresti avuto voglia di rispondere alle doglianze di uno sconosciuto. Tanto meglio.

Accetto senz'altro il tuo invito a discutere di persona, anche perché mi rendo conto che chi occupa un posto di responsabilità come il tuo non può permettersi di mettere per iscritto tutto il suo pensiero. Permettimi tuttavia alcune precisazioni.

Ho definito "irripetibile" l'occasione che si presentava alla Destra in quanto l'immagine della DC difficilmente potrà toccare in avvenire un livello di degradazione più alto di quello attuale. È presumibile, piuttosto, che la stessa intensità del male provocherà una reazione di difesa, se non del partito vero e proprio, per la meno del mondo cattolico che, se pure rassegnato al compromesso, vorrà arrivarci da posizioni di forza. E già si avverte qualche leggero sintomo in proposito.

Ti parlo di elezioni, di DC, di PCI ma in realtà l'ordine di pensieri che mi sta veramente a cuore sta molto più a monte del piano politico in senso stretto. Se con l'espressione "ideologizzare il partito" intendi il tentativo velleitario di costringere la realtà entro rigidi schemi astratti, sono perfettamente d'accordo con te nel ritenerla cosa deleteria, ma a quell'espressione si potrebbe dare anche un altro significato, altamente positivo. Ideologizzare il partito potrebbe anche voler dire strapparlo alla pura e semplice gestione dei sentimenti e dotarlo di interpretazioni storiche inequivocabili, di chiare analisi socio-politiche-economiche, di programmi non fumosi. Vorrebbe dire il contrario di quello che intende Tedeschi, mi sembra, quando afferma che il partito dovrebbe farsi portatore e difensore di interessi concreti, sia pure legittimi.

Nella tua lettera parli di "successo futuro", di "causa", di "germoglio", di "respirare in italiano", di "guardare con serietà e con impegno ai destini del proprio paese", di "educazione delle giovani generazioni". Tutte cose sacrosante ma talmente generiche da essere sottoscrivibili, e ti chiedo scusa, perfino da un Pajetta ora che il comunismo è diventato "nazionale"! Affermare l'esigenza di educare i giovani non basta, occorre elaborare un preciso sistema di valori ordinati gerarchicamente, senza i quali la parola educazione è un semplice "flatus vocis". Né a tale scopo può più bastare il semplice patriottismo che, oltretutto, sfocia inevitabilmente nell'antagonismo delle patrie. E qui appare chiaro, però, che non si tratta più di un problema strettamente politico ma culturale nel senso più ampio.

Proprio perché il partito è bene che sia e rimanga uno strumento flessibile, dovrebbe avere a monte un solido corpo dottrinario da usare come sicuro riferimento polare, senza il quale non c'è abilità di nocchiero che tenga. Per arrivare a tanto, però, dovremmo essere capaci di ripudiare una inveterata "forma mentis" che da troppi decenni tarpa le ali alla nostra parte politica. Mi riferisco a quel particolare tipo di approccio alla realtà che definirei "giornalistico" e che induce a credere illusoriamente che i problemi siano risolvibili mediante brillanti enunciazioni oratorie e che, al posto di solidi ponti di ferro e cemento, si possano piazzare slogan ben costruiti. Lungo questa linea abbiamo avuto un predecessore illustre, ma abbiamo avuto anche una bruciante esperienza che dovrebbe averci vaccinato per sempre.

È risaputo che la maturità è raggiunta soltanto quando si è capaci di trarre la figura paterna fuori dal mitico mondo dell'infanzia e di vederla nei suoi reali contorni di pregi e difetti. È un processo doloroso ma necessario che noi non abbiamo nemmeno iniziato, un po' per paura di perdere consensi, un po' perché comporta travaglio e fatica, un po' perché molti di noi non ne sentono proprio il bisogno. Poi non meravigliamoci, però, se l'opinione pubblica ci attribuisce anche la parte negativa dell'eredità lasciataci dal nostro prestigioso padre!

Qui metto il punto altrimenti di che cosa parleremo a voce? Per quanto riguarda il colloquio, mi farò vivo di nuovo ai primi di settembre in modo da fissare un appuntamento preciso.

Ti auguro un buon Ferragosto e ti saluto molto cordialmente. Romano Badiali.

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Roma, 15/9/1976

(per un errore della dattilografa, l'originale porta la data 15/9/1975)

Caro Amico,

riferendomi alla tua precedente lettera e a quanto ho scritto in risposta alla medesima, ho provveduto a farti inviare, a parte, alcune pubblicazioni edite a cura del partito che testimoniano del nostro impegno culturale, anche a livello internazionale.

Ho ritenuto di farti in tal modo cosa gradita e colgo l'occasione per rinnovarti un cordiale saluto.

Giorgio Almirante.

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Dopo questo scambio di lettere incontrai Almirante a settembre ed avemmo un lungo e cordiale colloquio il cui contenuto non sto a riferire in dettaglio perché lui oramai non c'è più e qualunque cosa io dicessi potrebbe essere considerata unilaterale. Posso dire, però, quale effetto produsse su di me quell'incontro. Rimasi deluso, le cose che lui mi disse non mi piacquero, e non mi piacquero al punto che da allora non votai più MSI. Tra l'altro, mi invitò a collaborare al "Secolo d'Italia", il giornale del partito, facendomi così capire che il messaggio di fondo della mia lettera non era stato recepito. Non era, infatti, ad una attività di partito che tutto il mio discorso intendeva riferirsi.

In ogni modo, dopo avere ricevuto il suo pacco di libri e dopo il colloquio, gli scrissi la lettera che segue.

 

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Roma, 7/10/1976

Caro Giorgio,

desidero ringraziarti vivamente sia per i libri che mi hai spedito con tanta cortesia e sollecitudine, sia per il cordiale colloquio, sia per il lusinghiero apprezzamento delle mie lettere che mi ha perfino procurato un certo imbarazzo che è andato ad aggiungersi a quello prodotto dalla situazione in sé e per sé: usciere, segretarie, anticamera, incontro con il segretario del partito, sedie allineate e coperte in una stanza dove si decidono le sorti del partito e un giorno, augurabilmente, si decideranno quelle dell'Italia! Mancava un certo mappamondo, è vero, ma in compenso nessuno poteva negare che mi trovassi proprio nel covo del Drago!

(Nota per chi mi legge oggi: a quel tempo la Direzione Nazionale del MSI stava a palazzo del Drago).

Non ti ho scritto subito perché desideravo rendermi conto del contenuto delle pubblicazioni ricevute, in modo da poterne parlare con cognizione di causa. Non è certo il caso, ora, di entrare nel merito delle questioni trattate ma posso, però, parlarti dell'impressione generale prodotta in me da quei libri: si direbbero riuniti di proposito per dare un'immagine concreta, visiva, di come la cultura viene concepita a destra. Da una parte il volume ponderoso, in cofanetto di lusso, costosamente rilegato, contenente su carta patinata le profonde elucubrazioni degli "addetti a pensare". Dall'altra parte, l'opuscoletto per il parco buoi "Manuale dell'anticomunismo". Tra i due un abisso, prodotto non tanto dalla necessariamente diversa qualificazione dei lettori, quanto dalla nefasta concezione della cultura rilegata-relegata, appannaggio di pochi che spesso, poi, finiscono per essere vittime del ruolo loro assegnato di api regine del pensiero, che reputano cioè disdicevole per il proprio prestigio quel lavoro di divulgazione delle idee in lingua volgare senza il quale ogni collettività finisce inevitabilmente per dividersi in due gruppi: da una parte i filosofi, dall'altra i droghieri, senza offesa per questi ultimi. Per non parlare, poi, di certi intellettuali completamente assorbiti dallo sterile esercizio di vestire il vuoto con eufoniche verbosità. La cultura, invece, dovrebbe essere moneta corrente, spendibile ogni giorno, linfa vitale vivificante tutto il partito con idee, proposte, argomenti, dibattiti. L'importante sarebbe non isolare nel pensatoio i cervelloni addetti a secernere pensiero e riservare a tutti gli altri i soliti luoghi comuni e gli slogan propagandistici.

Se non si risolve questo problema di fondo, tutto quello che si fa potrà anche essere motivo di merito e di legittimo orgoglio sul piano individuale ma non servirà certo ad imboccare una strada diversa da quella che nell'ultimo conflitto ha portato i nostri carristi a morire nelle "scatole di sardine" spappolate dai micidiali 88/27 inglesi. Qualcosa deve pur cambiare se non vogliamo ritrovarci eternamente a cercare conforto nell'eroismo di El Alamein! I nostri soldati hanno diritto a qualcosa di più che a una semplice commemorazione, hanno diritto alla vittoria che non potrà arriderci fino a che non saremo capaci di individuare "che cosa non ha funzionato l'altra volta". La tua bella autobiografia esprime efficacemente l'intensità dell'amarezza prodotta dalla caduta nella polvere, dall'ignominia di tanti Italiani. Prima, il desiderio dell'Assoluto, la Nazione, lo Stato, l'Impero, l'emulazione dei Padri, poi lo schianto e il trauma. Ebbene, uno come te, che ha vissuto una siffatta esperienza, è possibile che si lasci sedurre dall'entusiasmante desiderio di ripetere il tentativo di dare una spina dorsale a questo meraviglioso popolo di cialtroni senza avere giurato a se stesso di non ripetere gli errori che già una volta hanno portato alla catastrofe? È possibile che non ti abbia sfiorato il pensiero che una delle cause della disfatta, non soltanto militare, potrebbe essere rappresentata proprio dalla tendenza dei poeti a "camminare nello spazio senza misurarlo"? Se vuoi deviare il corso di un fiume non ti basta più essere poeta, devi farti ingegnere. Che diga sarà mai quella che, al posto del ferro e del cemento, ha endecasillabi e trochei? Non ritieni che la soluzione vincente sia rappresentata dal "camminare nello spazio misurandolo"? Che è, poi, l'unico sistema conosciuto per non finire in fondo ad un burrone senza avere nemmeno il diritto di lamentarsi.

Per tornare al discorso sulla cultura, un'altra dimostrazione della giustezza di quanto vado dicendo è rappresentata dal "Secolo d'Italia" e dal fascicolo, interessantissimo, su Gentile. Quest'ultimo zeppo di citazioni e riferimenti bibliografici, scritto nel solito linguaggio per iniziati. L'altro con una terza pagina che parla delle disavventure fiscali di un pianista che non paga le tasse, dell'architettura dorica, del prossimo programma televisivo di varietà presentato da Pippo Baudo, degli 85 anni dell'ammiraglio Doenitz, della recensione di un libro uscito quattro anni fa, del riscatto spirituale, della ripresa intellettuale, di ricostruire dopo avere abbattuto, di lezioni e seminari alla Fondazione Volpe completamente sconosciuti alla stessa Fondazione dove mi sono recato di persona, dei premi consegnati a Cassano Ionico, del Festival dell'organo (senza ironia), dell'omicidio di una "giovane e bella ragazza tedesca", dell'Istituzione concertistica romana, del libro vincente al premio Levico e via quisquigliando.

Se l'informazione culturale è questa, tante grazie, non ho fame! Il dramma della nostra cultura è tutto qui, il nostro esercito culturale è costituito solo da generali e da fantaccini. I primi si vergognano di parlare in modo da essere capiti dai secondi e questi non sentono assolutamente il desiderio di diventare sottufficiali e ufficiali, un po' per pigrizia mentale, un po' perché spaventati dall'aspetto scostante della cultura accademica. A me sembra che utilizzare l'intelligenza, la preparazione, lo stile del professor Plebe per scrivere il manuale dell'anticomunismo significhi sperperare un patrimonio prezioso che potrebbe essere più proficuamente impiegato per illustrare il pensiero di Gentile, per esempio, senza ricorrere a espressioni come "il farsi dello spirito" o "il dialogo trascendentale".

Credo di comprendere perfettamente la carica di animosità del professore verso i suoi compagni di una volta ma so anche che perfino la Chiesa ha abbandonato il metodo didattico basato sul catechismo per seguirne un altro basato sul coinvolgimento ragionato dell'interlocutore. D'altra parte, se è vero, come tu mi hai fatto notare, che oggi gli uomini di destra rischiano la pelle per le loro idee, non è questo un motivo in più per sentire l'obbligo morale di fornirli di armi e di munizioni ideologiche efficienti? A seguire sui nostri giornali il dibattito precongressuale, si prova contemporaneamente un senso di pena e di speranza, per la povertà e la genericità dei discorsi portati avanti, che tuttavia denunciano l'esigenza diffusissima, anche se confusa, di approfondimento dei problemi e di maggiore articolazione delle idee. Esigenza facilmente strumentalizzabile da parte di chi volesse giocare allo scissionismo.

Partito coacervo di forze o partito crogiolo di volontà? Nuova edizione del fascismo o edizione di un nuovo fascismo? Violenza come scelta vocazionale o violenza come rimedio d'emergenza? Cervello appendice dei pugni o, casomai, il contrario? Turbe vocianti o esercito di volontari addestrati e disciplinati? Poeti che finiscono nei fossi o ingegneri che scrivono poesie? Sono tutte variazioni di un tema fondamentale, quello della cultura. Dalla nostra parte il materiale da costruzione abbonda ed è anche eccellente. Mancano, invece, i capomastri, i geometri, per la preparazione dei quali non servono soltanto soldi e attrezzature. Serve anzitutto avvertire l'esigenza che ci siano capomastri e geometri. Poi occorre entrare nella mentalità della "tecnica" (perché arricci il naso?) con la sua metodicità, la sua organizzazione, il suo studio serio dei problemi, la sua ricerca di soluzioni concrete e funzionali.

Se veramente hai apprezzato le mie lettere quanto dici, perché non parlare ancora di questi problemi in un ambiente, però, meno formale di quello dell'altra volta e senza scrivanie di mezzo? Mi piacerebbe molto conoscere il professor Plebe e conoscere la sua opinione su quanto sono andato dicendo in queste mie lettere che sarebbe più opportuno definire "romanzo a puntate. Continuo a scriverti a casa tua proprio perché desidero che la nostra corrispondenza abbia il meno possibile sapore di burocrazia.

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Roma, 7/1/1977

Caro Giorgio,

dal momento che non hai scampo, rassegnati. Le mie lettere continueranno a perseguitarti. In compenso la presente ti ruberà pochissimo tempo dal momento che è telegrafica.

Come volevasi dimostrare, la scissione è arrivata. Il partito "coacervo di forze" si è sfasciato di fronte alla prima scelta impegnativa, il che dimostra che il crogiolo non aveva raggiunto la temperatura necessaria alla fusione dei vari componenti la lega. E non la raggiungerà mai, secondo me, fintantoché si userà soltanto il combustibile rappresentato dai soli sentimenti.

Terrei moltissimo ad assistere ai lavori del prossimo congresso. Ho già fatto richiesta in tale senso alla tua gentilissima segretaria che non ha potuto fare altro che mettermi in lista presso l'ufficio incaricato che, però, mi ha dato poche speranze dato l'alto numero di richieste. Vorrai fare una telefonata in mio favore? Te ne sarò infinitamente grato. In bocca al lupo e occhio alla stella polare!

Saluti cordiali. Romano Badiali.

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Almirante mi fece avere l'invito ad assistere alle sedute del congresso (vedi sotto, non voglio passare per un mitomane) ma mi fu materialmente impossibile parteciparvi. Da quel momento in poi la mia distanza dal MSI, e in generale dalla politica di partito, andò aumentando sempre più fino a diventare incolmabile.
Oggi è cambiato completamente il modo in cui penso il rapporto cultura-partito. Se vi interessa conoscerlo, continuate a leggere.

 


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Prima considerazione telegrafica: se il taglio del cordone ombelicale che legava il MSI al fascismo si fosse verificato 26 anni fa - come io suggerivo ad Almirante - anziché a Fiuggi, oggi il partito di Fini non avrebbe bisogno dell'avallo di Berlusconi per farsi accettare come partito democratico.

La stessa considerazione può essere fatta anche nei confronti del PCI: se non avesse aspettato il crollo del muro di Berlino per condannare l'URSS e il marxismo-leninismo, adesso D'Alema & C. non avrebbero bisogno di mandare avanti Rutelli o Prodi. E il palcoscenico della nostra politica oggi ospiterebbe attori più credibili. I post-comunisti sostengono di avere fatto quella condanna anche prima che il muro cadesse, ma non si trattava di un vero e proprio atto politico, era solo un documento approvato in una ristretta riunione di vertice e senza alcuna risonanza alla base. In altre parole, era stato più che altro uno stratagemma per prefabbricarsi un alibi da usare nei tempi futuri.

Qualcuno ha detto che solo gli imbecilli non cambiano mai idea. È vero, ma un cambiamento d'idea appare credibile solo quando richiede il pagamento di un prezzo. E più il prezzo da pagare è stato alto, più credibile è il cambiamento. Se, invece, cambiamo idea quando ci torna utile, comodo e conveniente, è lecito il sospetto che si tratti solo di puro e semplice opportunismo.

Seconda considerazione: oggi penso che Cultura e Partito siano due realtà incompatibili in quanto la prima ha come presupposto la libera ricerca di ciò che si ritiene giusto e vero, mentre il secondo obbedisce alla logica faziosa dell'appartenenza e degli schieramenti. Un intellettuale che si "intruppa" in un partito smette di essere un intellettuale, rinuncia al suo bene più prezioso cioè la libertà di pensiero e diventa un semplice strumento per la propaganda di quel partito. Quanti ne abbiamo conosciuti, anche famosi e illustri!

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