La omologazione culturale

Giuseppe Ascenso

 

Il cosiddetto mondo post-bipolare, secondo molti studiosi è caratterizzato da una singolare e, per certi aspetti, paradossale duplicità. Se è vero, infatti, che il mondo appare sempre più globalizzato e sempre più interdipendente, è altrettanto vero che appare anche estremamente frammentato. È innegabile, infatti, la proliferazione dei particolarismi. Questi, altro non sono che tentativi di resistenza al processo di globalizzazione, la riscoperta, insomma, di forti identità nazionali e culturali da difendere con ogni mezzo. L’interdipendenza e l’integrazione del pianeta sono indubbiamente legate alle nuove tecniche dei trasporti, delle comunicazioni e dell’informazione. Si pensi alla rivoluzione informatica e all’avvento di Internet che hanno determinato ciò che viene definita la "compressione dello spazio e del tempo". L’integrazione non è certo una novità dei nostri tempi. Le economie capitalistiche, si pensi all’Inghilterra dell’800, si sono sempre mosse su una dimensione planetaria. Non v’è dubbio, però, che il crollo del comunismo europeo e dell’Unione Sovietica, tra il 1989 e il 1991, e l’ingresso della Cina sui mercati internazionali, abbiano dato al processo di globalizzazione una accentuazione notevolissima. È evidente, infatti, che gli Stati Uniti sono oggi la sola superpotenza con una posizione economica, culturale e militare dominante nell’ordine globale. Molte delle espressioni culturali più visibili della globalizzazione sono americane, dalla Coca Cola ai McDonald’s e alla maggior parte delle grandi compagnie multinazionali che hanno la loro sede negli Stati Uniti.

Giddens, nella sua opera "Il mondo che cambia" (1), oltre a ribadire che è un errore vedere il fenomeno del mondialismo soltanto in termini economici, sostiene che la globalizzazione va sempre più decentrandosi. La sua tesi si contrappone, pertanto, a quella di Latouche il quale, invece, ritiene che la globalizzazione sia sinonimo di occidentalizzazione. Su queste tematiche io credo sia il caso di soffermarsi. Secondo Latouche, infatti, è vero che col processo di decolonizzazione è stata sancita la fine della supremazia dell’Occidente, ma ciò non ha significato certamente la fine della civiltà occidentale. Come dire, insomma, che la morte dell’Occidente per sé non è stata la fine dell’Occidente in sé. La mondializzazione contemporanea non è un processo generato dalla fusione di storie e di culture diverse, è un processo di assoggettamento, di distruzione e di ingiustizia. È, ancora una volta, l’Occidente che con la sua forza terrificante impone i suoi stili di vita, i suoi modelli culturali ed economici. "Sotto il rullo compressore dell’occidentalizzazione, tutto sembra essere già stato distrutto, livellato, schiacciato; eppure, nello stesso tempo, i resti sono soltanto sepolti, talvolta resistono e sono pronti a riaffiorare" (2).

Secondo Christian Maurel, "Se si fà la storia delle battaglie, il colonialismo è fallito. Basta fare la storia della mentalità per accorgersi che esso è il più grande successo di tutti i tempi. Il più bel prodotto del colonialismo è la farsa della decolonizzazione. I bianchi si sono ritirati dietro le quinte, ma restano i produttori dello spettacolo". L’Occidente, per dirla ancora con il Latouche, "non è più l’Europa, né geografica, né storica; non è più nemmeno un complesso di credenze condivise da un gruppo umano che vaga per il pianeta: è una macchina impersonale, senz’anima e ormai senza padrone, che ha messo l’umanità al proprio servizio" (3).

Per me, a differenza di Latouche, questa macchina senz’anima ha un nome: Stati Uniti d’America. Ciò non significa, ovviamente, che l’Europa non si identifichi con ciò che chiamiamo civiltà occidentale, ne fa ovviamente parte a pieno titolo per motivi storici, etnici e culturali. Il dato preoccupante, nonostante certi trionfalismi e talune mode in base alle quali non si può non ammettere la realtà europea, è che l’Europa, come entità politica e spirituale, di fatto non esiste: si tratta di un ideale pervicacemente perseguito e non ancora realizzato tranne che sul piano meramente economico, in qualche misura. Non bastano dei trattati, per quanto importanti, per cancellare secoli di storia, per eliminare antiche fratture e ostilità ormai consolidate da secoli. L’Europa non è che la gigantografia dell’Italia rinascimentale, logorata dalle lotte e dalle incomprensioni tra gli Stati regionali. È l’Europa delle Nazioni, di quegli stati nazionali quali si sono venuti configurando in quel lungo arco di tempo che va dalla fine del tredicesimo secolo alla metà del diciottesimo. Che l’Europa, come Stato sovranazionale, sia confinata in una dimensione più simbolica che reale, è dimostrato, ad esempio, dalla incapacità di esprimere una visione comune sui grandi eventi contemporanei di politica estera e dalla sua sudditanza, con la lodevole eccezione della Francia e, in misura minore, della Germania, alle decisioni prese sull’altra sponda dell’Atlantico. La recente questione irachena ne è la prova inconfutabile: pur di obbedire agli americani, si intraprende un’azione diplomaticamente illegale come l’occupazione dell’Iraq, realizzata senza un mandato dell’assemblea generale delle Nazioni Unite e senza l’unanimità all’interno del consiglio di Sicurezza dell’ONU. Per tale motivo, se il processo di globalizzazione lo si identifica con quello di occidentalizzazione, quest’ultimo non può che essere inteso come un’autentica americanizzazione del pianeta.

Personalmente non ho mai nutrito alcuna simpatia per l’ideologia marxista, figuriamoci per lo Stato che ha preteso, giustamente o falsamente, di esserne l’attuazione storico-politica. Ma, nonostante i crimini commessi e le aberrazioni sostenute, la fine dell’Unione Sovietica, provvidenziale dal punto di vista umano, si è rivelata infausta sotto il profilo politico e storico. Tale fine e, dunque, anche la fine dell’equilibrio del terrore, hanno consentito agli Stati Uniti di assumere il ruolo di gendarmi incontrastati del pianeta e di imporre la loro volontà e i loro interessi in qualunque parte del mondo lo ritengano necessario. La globalizzazione, pertanto, a mio avviso assume, come già detto, le sembianze di un processo di americanizzazione di quello che viene ormai definito il "villaggio globale".

Il processo di globalizzazione è drammaticamente negativo per quanto riguarda la produzione e la commercializzazione dei beni di consumo per la massa. Si pensi alle varie multinazionali che detengono le chiavi per decidere le scelte economiche di un intero pianeta o alle grandi aziende che utilizzano a piacimento, nell’ambito del sistema produttivo, le varie parti del mondo, a seconda delle materie prime che vi si trovano o del costo della manodopera. Può addirittura accadere che una nave carichi componenti di apparecchiature elettroniche perché poi siano assemblate a bordo. In tal modo al paese di destinazione arriva il prodotto finito pronto per essere venduto. Da una simile operazione, oltre al risparmio sui tempi produttivi, l’imprenditore trae un altro vantaggio economico: le maestranze, a bordo, non godono dei diritti sindacali poiché il rapporto di lavoro si svolge in acque extraterritoriali. Che il mercato globale comporti il più volgare sfruttamento degli esseri umani credo non possa essere messo in discussione. Il problema assume delle connotazioni ancora più preoccupanti quando lo si consideri anche da un’altra prospettiva: intendo riferirmi alla globalizzazione culturale, ossia alla globalizzazione delle idee e dei valori. Il mondialismo aspira a rendere il mondo un unico mercato, soggetto alle stesse regole, ma anche soggetto alle scelte economiche di imprese molto potenti, ciò porta ad una situazione in cui le scelte sono decise da pochi, ma si riflettono su molti.

La globalizzazione, pertanto, appare indiscutibilmente antidemocratica dal punto di vista economico ed estremamente deleteria sotto il profilo culturale per le nefaste conseguenze che può produrre. Essa si traduce nella trasmissione di modelli di vita e quindi di regole sociali e giuridiche omogenee, con le quali possono essere messe a repentaglio le differenze culturali e addirittura l’identità culturale delle diverse popolazioni. Ciò che mi preme sottolineare, innanzitutto, è che, dato per scontato il legame cultura-economia, la globalizzazione culturale non è un dato esclusivo della contemporaneità. I tentativi di realizzare una omologazione culturale di tipo continentale, ieri, planetario, oggi, hanno radici lontane. Si pensi alla politica che gli stati europei del cinquecento attuarono nel continente sudamericano o a quella realizzata dagli Stati Uniti nei confronti dei cosiddetti Indiani; e non mi riferisco alla vergognosa conquista del West nell’Ottocento, ma a ciò che ancora oggi avviene nella tanto decantata scuola americana: "l’educazione impartita ai bambini indiani è una vera vergogna nazionale. Il metodo più diffuso consiste nel togliere i bambini alle famiglie per avviarli in collegi a disciplina quasi militare. Come risultato, il bambino indiano è non solo alienato e disorientato culturalmente, ma si sente completamente estromesso dalla vita attiva, tanto che il numero dei suicidi fra gli indiani è doppio rispetto alla media americana. Molti bambini indiani abbandonano la scuola prima di averla finita; non possono sopportare l’umiliazione di uno studio storico che falsifica la posizione indiana e denigra la loro cultura" (4). Gli indiani sono tenacemente attaccati ai loro territori e devono lottare per resistere ai tentativi di assimilazione e integrazione nella società americana.

Quando Bush, a proposito dell’Iraq, sostiene di voler imporre in quel paese la democrazia, non si accorge, o finge di non accorgersi, che elabora un pensiero logicamente contraddittorio, giacchè i concetti di democrazia e di imposizione non possono coesistere se non al prezzo di annientare l’uno o l’altro, ma soprattutto di sostenere un progetto di vera e propria colonizzazione culturale: la democrazia non è una merce da esportare, è una conquista che rientra nel processo di autodeterminazione dei popoli. Io auspico che quanto sosteneva Marcuse nel celebre"Saggio sulla liberazione" possa davvero accadere, e cioè che "i popoli possano rifiutare le regole del gioco che viene giocato con carte truccate contro di loro, che possano rifiutare la vecchia strategia della pazienza e della persuasione, la fiducia nella buona volontà dell’establishment, le sue false e immorali comodità, la sua crudele opulenza" (5).

Ma c’è un altro problema, quando si parla di globalizzazione, che non può essere eluso e che necessita, invece, di una profonda analisi: non c’è dubbio che il mondo globalizzato è un mondo voluto ed elaborato da forze politiche, culturali ed economiche, ma su quali siano queste forze, su quali siano gli scopi che esse si prefiggono di raggiungere non c’è unanimità tra gli studiosi del fenomeno. Tra le molteplici interpretazioni, mi pare che due siano quelle maggiormente diffuse e condivise. La prima è sicuramente quella economicistica, secondo la quale il mondialismo è visto come un fenomeno voluto e sostenuto dalle grandi multinazionali e dalle influenti lobby bancarie e finanziarie. "La dimensione globale dei mercati finanziari offre grandi possibilità di espansione, ma comporta anche grandi rischi che derivano dalla accelerata circolazione dei capitali e da ricchezze artificiali e sopravvalutate. Così come la disponibilità di una manodopera globale, se da un lato consente di decentrare la produzione nei paesi dove il costo del lavoro è più basso, nell’Europa orientale o nell’Asia, determina anche la propagazione di nuove drammatiche forme di sfruttamento, soprattutto minorile".

Molto più articolata è l’interpretazione che potremmo definire di carattere esoterico. Per introdurre tale visione del fenomeno ci serviamo delle parole, credo abbastanza illuminanti, di Nicholas Butler, presidente dell’Università di Columbia, membro del Council on Foreign relations e capo del British Israel: "Il mondo si divide in tre categorie di persone: un piccolissimo numero che fa produrre gli avvenimenti; un gruppo un po’ più importante che vegli sulla loro esecuzione e assista al loro compimento, e infine una vasta maggioranza che giammai saprà ciò che in realtà è accaduto". Ricordo che il Council on Foreign Relations fu fondato con i finanziamenti della famiglia Rockfeller nel 1918; era costituito da 650 membri, ovvero il gotha del mondo degli affari americano. "Nacque per contrastare le tendenze isolazionistiche degli americani, contrarie agli interessi delle multinazionali americane…. lo scopo era quello di studiare strategie globali che poi immancabilmente la Casa Bianca adottava come direttive di politica internazionale" (6). Il British Israel, che ha antichissime origini, e che possiamo sintetizzare nel convincimento che la monarchia inglese fosse l’erede del regno di Israele" concedeva una ratificazione biblica all’imperialismo britannico"; insomma una legittimazione divina.

Secondo l’interpretazione che abbiamo definito esoterica, la globalizzazione sarebbe l’attuazione di una cospirazione metapolitica, ossia religiosa o esoterica. "I fili della storia – asseriscono questi studiosi – si tirano proprio nelle logge massoniche e nei consigli di amministrazione delle multinazionali e delle grandi banche"(7). Secondo tali studiosi, come Aronson o Sutton, un gran numero di persone che contano, dirigenti di grandi multinazionali, banchieri, personaggi dell’alta finanza, sarebbero affiliati a oscuri ordini esoterici. Si pensi al banchiere americano James Warburg che il 17 Febbraio 1950, alla commissione esteri del Senato, dichiarava: "Che vi piaccia o no, avremo un governo mondialista o col consenso o con la forza". Insomma, "una oscura oligarchia sembrerebbe tirare le fila di burattini che solo apparentemente sono alla ribalta della scena politica…. neppure i partiti contano poi molto. Essi stessi sono a loro volta manovrati, usati, in relazione a degli scopi precisi" (8). Renè Guenon, nel suo scritto "Riflessioni a proposito del potere occulto", pubblicato su una rivista cattolica francese del 1914, scrisse: "Un altro punto da tenere presente è che i Superiori Incogniti, di qualunque ordine siano e qualunque sia il campo in cui vogliono agire, non cercano mai di creare dei movimenti. Essi creano solo degli stati d’animo, ciò che è molto più efficace, ma forse un poco meno alla portata di chiunque".

È incontestabile che la mentalità degli individui e delle collettività può essere modificata da un insieme sistematico di appropriate suggestioni. David Rockfeller nel 1991, pensando di parlare a orecchie fidate, ha dichiarato:"Una cospirazione esiste da quarant’anni; essa la scopo di instaurare nel segreto un governo mondiale e la sovranità nazionale dei banchieri; il nemico dei cospiratori è l’autodeterminazione dei popoli". Nella storia contemporanea, diverse società segrete sono state accusate di celare, tra i loro disegni, quello di un governo mondiale. Jean Vernette menziona il Movimento sinarchico di impero, l’Ordine martinista e il movimento paneuropeo; "Il nuovo ordine del pianeta ha la pretesa di omologare tutte le culture del mondo, di asservirle a un solo modo di vita, di sacrificarle all’oscura teologia di una elite illuminata. E così si attuano strategie che creano nuovi razzismi, che mirano a sacrificare i poveri del pianeta, a sottometterli alle aberranti ideologie dei signori del mondo" (9) .

È certamente difficile individuare i fili che legano tra loro le tante lobby occulte ed è assai complicato muoversi in questo intricato vespaio di esoterismi. In ogni caso, che la globalizzazione sia interpretata secondo una visione economicistica o secondo un’ottica esoterica, l’elemento unificante permane, ed è quello di determinare a livello mondiale una situazione di omologazione culturale. Nel caso della globalizzazione voluta dalle grandi multinazionali e dalle lobby finanziarie, l’omologazione culturale non è l’obiettivo perseguito, ma la conseguenza di un’altra finalità. E evidente, infatti, che lo scopo primario dei grandi potentati economici è quello di globalizzare l’economia del pianeta. Certo è evidente che la globalizzazione della struttura (economia) incida poi su quella della sovrastruttura (cultura). In ogni caso, però, non è la cultura, ma l’economia l’oggetto da globalizzare. Nel caso invece della globalizzazione perseguita da quelle forze occulte ed esoteriche delle quali abbiamo già detto, gli obiettivi di fondo sono relativamente diversi: in questo caso la motivazione primaria che muove queste forze è la mitizzazione del potere; l’obiettivo di fondo è di realizzare un governo mondiale. Agiscono qui motivazioni psicologiche, religiose, etniche che spingono queste forze, legate a concezioni massoniche o a interpretazioni esoteriche della vita, alla conquista del potere mondiale, per motivi che non trascendono la questione del potere stesso, ma che trovano spiegazione all’interno della dinamica stessa del potere: insomma, il potere per il potere.

È evidente che, in questo caso, detenere un potere sovranazionale significa imporre dei modelli culturali a livello mondiale, in tale contesto accadrà una situazione inversa rispetto alla precedente: la globalizzazione della sovrastruttura (cultura) avrà delle ripercussioni non indifferenti sulla globalizzazione della struttura (economia). Ciò che mi preme porre in evidenza è che, si consideri il primo caso o il secondo, il risultato sarà il medesimo,:che l’obiettivo primario sia l’economia o il potere, la conseguenza è la globalizzazione a livello culturale, che si esplicita e si concretizza in termini di vera e propria omologazione. Se dunque riteniamo che i veri obiettivi della globalizzazione siano il potere e l’economia, bisogna allora ammettere che l’omologazione culturale non ne è che l’effetto. Tuttavia, la sua affermazione e il suo radicamento a livello planetario, se non sono determinate, sono quanto meno favoriti da alcuni convincimenti politici e filosofici che hanno avuto e tuttora hanno una largo eco e un’ampia diffusione nella cultura occidentale e non solo. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’internazionalismo social-comunista è estremamente radicato nella nostra cultura, in modo particolare nel nostro paese che ha avuto il più forte partito comunista dell’occidente, o in Francia dove il partito comunista per lungo tempo ha assunto posizioni addirittura staliniste. Non è mancata dunque una decisa e forte opposizione a categorie storico-filosofiche ormai consolidate da secoli. Mi riferisco al concetto di Patria e a quello di Nazione, quale si sono venuti configurando nell’età romantica, a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento: la nazione intesa come totalità organica, come l’insieme di persone che "devono" stare insieme, perché hanno la stessa lingua, la stessa religione, gli stessi costumi e la stessa storia.Tale concetto di nazione ha pagato a caro prezzo la forza dell’internazionalismo, in modo particolare in paesi, come il nostro, dove l’esperienza campanilistica dell’età comunale e la frantumazione geo-politica di quella rinascimentale, hanno reso assai fragile il senso dell’appartenenza e la coesione nazionale. Il tutto aggravato, poi, da una unità politica raggiunta troppo tardi e dopo circa mille anni di fratture e divisioni.

L’internazionalismo del XIX e del XX secolo ha avuto dunque un ruolo assai significativo nella decadenza del concetto di Patria e in quello di Nazione. È appena il caso di ricordare l’enorme diffusione, a livello mondiale, del marxismo e della sua concezione dello Stato, come momento ideale, e dunque non reale, nell’ambito del processo dialettico della storia, e quindi come momento destinato a naufragare e scomparire nella sua stessa inutilità. "Abbiamo già dietro di noi – scriveva Lenin – un’esperienza internazionale considerevole, la quale attesta nel modo più preciso che alcuni tratti fondamentali della nostra rivoluzione non hanno un’importanza locale o nazionale, ma un’importanza internazionale, in quanto hanno un’influenza su tutti i paesi…. Il modello russo indica a tutti i paesi qualche cosa di molto essenziale per il loro inevitabile e non lontano avvenire" (10).

L’interpretazione internazionalistica della realtà socio-politica è ancora più evidente in Trotskji. Basti pensare alla sua considerazione che "la rivoluzione russa è parte della rivoluzione internazionale e che la vittoria definitiva del socialismo in Russia è legata a quella della rivoluzione mondiale"(11). L’internazionalismo marxista ha quindi dato un consistente contributo all’indebolimento dei concetti di patria, stato e nazione. Ha contribuito, pertanto, a rendere fertile il terreno perché vi attecchisse il seme dell’omologazione culturale, quale prodotto della globalizzazione. Ma non è soltanto l’internazionalismo, ovviamente, ad aver preparato il terreno all’affermazione della globalizzazione culturale; vi sono, a tal proposito, altre idee, altri modi di pensare che si sono incuneati in maniera occulta, nella nostra mentalità, fino a permearla completamente. La cultura dominante, antirazziale, ecumenica e pluralista, in una sorta di delirio di onnipotenza, e dunque ritenendosi infallibile, ha estremizzato e radicalizzato i propri convincimenti che, pertanto, dovevano diventare i convincimenti di tutti: non potendo imporli in modo coercitivo, ha individuato i percorsi e le strategie giuste per giungere alla meta. La strategia è stata quella della persuasione occulta e dei messaggi subliminali. Tale persuasione è stata realizzata in modo del tutto innovativo e ha dato risultati purtroppo straordinariamente efficaci: è stata utilizzata l’arma del ricatto psicologico attuato attraverso una prassi che ci ricorda il concetto gramsciano di egemonia. Tale direzione intellettuale è stata realizzata mediante gli apparati egemonici della società civile: la scuola, la chiesa, i partiti, il cinema e la stampa. È la problematica degli intellettuali organici: in Gramsci fiancheggiatori del partito, in questo caso persuasori occulti al servizio delle idee dominanti. Attraverso costoro, talune idee sono diventate dominanti ed hanno conquistato la stampa, l’editoria, le scuole e le università.

In modo subliminale è stato fatto passare un messaggio che ha avuto, purtroppo, una diffusione impressionante e che è diventato credibile e giudicato infallibile: facendo leva sul bisogno dell’essere umano di non sentirsi isolato, facendo presa sulla sua esigenza di condivisione e sulla sua paura dell’emarginazione – tutte realtà assai importanti, soprattutto nell’età adolescenziale e giovanile – l’uomo occidentale è stato vittima inconsapevole di un autentico lavaggio del cervello. E' stato convinto – ecco il ricatto psicologico – di essere un razzista se si fa sostenitore delle differenze razziali, uno sciovinista se afferma la sua fede nel valore della Patria, un integralista se osa sostenere la verità della propria religione, un fanatico e un intollerante se crede nella specificità della propria cultura.

Le cose non sono ovviamente delineabili in maniera così semplicistica e falsa, su queste tematiche non è possibile utilizzare il criterio dell’aut-aut, troppe sono le sfumature e le sfaccettature in problematiche così complesse. "La razza – scrive Allport – è il punto d’appoggio usuale per la propaganda di allarmisti e demagoghi. È lo spauracchio preferito di coloro che hanno qualcosa da guadagnare e che hanno paura di una qualche generica minaccia. Una razza nemica, per la sua indeterminatezza, è particolarmente comoda. Ma - prosegue Allport- affermare che il concetto di razza è usato malamente non significa certamente alterare la verità relativa all’esistenza di alcune differenze razziali" (12). Così come, mi permetto di aggiungere, non è integralismo il credere nella verità della propria religione; se il cristiano ritiene che Cristo sia veramente il figlio di Dio, non può essere che Lui, Cristo, il detentore della verità e dunque, per fare un esempio, se la verità sta nel Vangelo, non potrà stare anche nel Corano. Qui sì, l’aut aut: o La Mecca o Gerusalemme. Allo stesso modo, si può amare la propria Patria e non essere un fanatico nazionalista; si può credere nella varietà delle razze e non essere un razzista, si può ritenere vera la propria fede religiosa e non essere né intollerante né integralista. La vera intolleranza e il vero integralismo appartengono a coloro che vogliono convincerci del contrario; essi sono gli artefici di una indegna operazione culturale che è tale nel merito e nel metodo. Nel merito perché ritengono di poter realizzare l’indottrinamento delle intelligenze, nel metodo perché ciò avviene attraverso lo strumento di una persuasione capillare e occulta.

L’omologazione culturale si afferma e si concretizza nella distruzione delle differenze e delle difformità; essa presuppone uno scontro fra culture con la inevitabile imposizione di quelle che possono usufruire di potenti strumenti di diffusione. Oggi nessun paese al mondo può competere coi potenti mezzi di propaganda di cui sono in possesso gli Stati Uniti d’America. Infatti stiamo assistendo ad una inarrestabile americanizzazione del pianeta. Gli americani sono presenti su tutto il pianeta e anche oltre – si pensi allo spazio – con le loro armi, con la loro lingua, con la loro tecnologia, con la loro cinematografia e con il loro esasperato liberalismo economico. Ma, e questo è l’aspetto che più mi preoccupa, con i loro modelli culturali e con il loro stile di vita che non mi piace affatto.

Per quanto riguarda noi europei, l’ho già detto, a parte alcune forme di resistenza come quella francese e tedesca, non mi pare siamo in grado di bloccare tale processo nonostante talune buone intenzioni. Ciò sta determinando una grave crisi delle identità nazionali, uno sconvolgimento delle nostre radici culturali, la perdita, insomma, della nostra specificità. Oggi, per quel ricatto psicologico del quale ho già parlato, non è possibile sottolineare con orgoglio la civiltà alla quale si appartiene senza essere accusato di razzismo. Omologazione culturale vuole dire dunque occidentalizzazione. Come osserva giustamente Emanuele Severino: "Non è mai esistito e non esiste nulla di eguagliabile all’aggressività che l’occidente ha esercitato e continua ad esercitare sul resto del mondo" e non esiste "nulla che eguagli la forma di potenza che la civiltà occidentale è riuscita ad evocare, che ha reso vincente la sua aggressività e sul cui fondamento il mondo è reso oggi sempre più omogeneo"(13). L’occidentalizzazione, però, è oggi sinonimo di americanizzazione. È in atto un conflitto culturale fra l’occidente cristiano e il mondo islamico, ed un altro, meno evidente, all’interno dell’occidente stesso. L’ostilità del mondo islamico verso l’occidente non è altro che una forma di "resistenza" di quel mondo ad una civiltà che a quel mondo si vuole imporre.

Oggi è diventato di moda sostenere che l’Islam ha dichiarato guerra all’occidente. A me non pare che il problema sia così semplice. Se con tale dichiarazione di guerra si intende l’11 Settembre e i successivi atti terroristici, allora tale terminologia può anche essere accettabile. Se si intende, invece, una deliberata volontà della civiltà islamica di voler sottomettere quella cristiano-occidentale per un progetto pianificato, a prescindere da ciò che l’occidente ha fatto, allora tale terminologia è decisamente fuorviante. Stabilita la condanna ferma e totale di ogni forma di terrorismo, va precisato che quello islamico diretto contro l’occidente non va giustificato, ovviamente, ma va spiegato: la reazione islamica è sbagliata nel metodo, ma è comprensibile nel merito. E' la reazione alla politica neocolonialista degli USA, si pensi all’Afghanistan e all’Iraq. È una civiltà, quella islamica, che vuole mantenere la propria identità e non può tollerare di diventare ciò che gli Stati Uniti hanno deciso che diventi per i loro interessi economici(petrolio) e per quelli di natura geopolitica, il controllo di una delle zone più strategiche del pianeta. Tale scontro è presente, seppur in modo meno palese, all’interno dello stesso occidente. La recente questione irachena ha messo in evidenza – a parte la solita sudditanza inglese verso gli USA – l’emergere di una dialettica interna all’Europa stessa, che si è concretizzata in un ripensamento dei rapporti con gli Stati Uniti. Da un lato, paesi come la Francia e la Germania che orgogliosamente hanno rivendicato la loro autonoma valutazione degli eventi, dall’altro paesi come l’Italia e la Spagna di Aznar dove le decisioni filoamericane dei governi non hanno trovato l’incondizionato appoggio dei rispettivi popoli, molto critici, in larga maggioranza, verso l’intervento in Iraq.

A me pare, insomma, che sia in atto una positiva reazione al tentativo americano di creare nel pianeta un unico modello politico e una sola strategia economica È il modello nazionale che si contrappone a quello sopranazionale; tale modello, nella storia, osservandola da un’ampia prospettiva, è stato sempre perdente, dall’impero persiano a quello macedone, da quello romano a quello carolingio, per finire con quello napoleonico.Siamo convinti che anche questa volta l’identità nazionale prevarrà sui progetti internazionalistici, le differenze vinceranno sull’uniformità e ciascun popolo percorrerà il proprio cammino nel rispetto delle altre nazioni, ma nella consapevolezza della sua specificità. Distruggere le identità nazionali – a questo ritengo porterebbe una diffusa e forte omologazione – sarebbe catastrofico, perchè ogni popolo è portatore di una storia, di un sapere, insomma di una civiltà che dev’essere protetta e salvaguardata. È dall’incontro di queste storie e di queste civiltà, che da millenni arricchiscono il nostro pianeta, che nasce lo sviluppo. E' dalla diversità che nasce l’armonia. L’omologazione culturale, intesa come una planetaria uniformità di credenze e stili di vita è profondamente antistorica e deleteria sotto il profilo razionale ed esistenziale. La globalizzazione e la conseguente omologazione culturale lungi dall’essere segno di progresso, come si vuol far credere, è al contrario l’emblema di un autentico regresso. Essa comporta l’uniformità e l’annullamento della varietà e delle differenze. Dove c’è uniformità ed equilibrio, non c’è vita e pertanto non c’è futuro e progresso. La vita e il movimento - lo aveva già capito 2500 anni fa Eraclito e lo sosterrà con ben altro spessore culturale anche Hegel – nascono dalla contrapposizione e dalla diversità. Sono certezze che non intendiamo perdere.

La globalizzazione economica, giuridica, culturale non è che la riedizione, in un contesto ovviamente diverso, dell’antico sogno universalistico di stampo medioevale, e questa esigenza di sincretismo religioso che sembra preludere ad una sorta di religione universale, rassomiglia molto alle tesi magico-filosofiche di Giordano Bruno e al sogno teocratico del Campanella. Non riusciamo davvero a vedere in tutto ciò il segno della modernità. Sembra alquanto illogico, pertanto poco razionale e comunque antistorico, credere che si possano cancellare millenni di storia che ci hanno reso ciò che siamo. Per quanto riguarda noi occidentali, non credo siamo migliori o peggiori degli altri, ma diversi sì. La civiltà greco-latina e la religione ebraico-cristiana hanno forgiato la nostra indole e le nostre menti, pertanto non saremo mai uguali agli africani, ai cinesi, o agli aborigeni australiani. Si rassegnino i fautori dell’ uniformità. La concezione illuministica della storia ha fatto il suo tempo. Checchè ne pensasse il Burckhardt, non ci sono fratture incolmabili nel complesso dispiegarsi degli eventi. Noi, hegelianamente, riteniamo la globalizzazione come l’elemento negativo, come quell’antitesi che sarà trascesa e superata nel momento conclusivo della sintesi. L’interpretazione hegeliana di questo fenomeno, evidentemente non è per noi una certezza ma un auspicio. Per tale motivo riteniamo che la globalizzazione sarà destinata all’oblio e che la storia riprenderà il suo corso. Aspettiamo, per dirla ancora con Hegel, l’Aufhebung, il superamento, quando, in una superiore sintesi, riaffiorerà, rafforzata e rinvigorita, la tesi, e pertanto risorgeranno quei valori e quegli ideali che non possono morire perché sono le fondamenta sulle quali è stata costruita la storia dell’umanità intera: la varietà e soprattutto la pacifica coesistenza, delle razze, delle religioni, delle etnie e delle nazioni.

 

Note

(1) A. Giddens, "Il mondo che cambia", Il Mulino, Bologna 2000

(2) S. Latouche, "L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria", Bollati- Boringhieri, Torino 1992

(3) S. Latouche, Op. citata

(4) P. Pieroni, "Pellerossa", Vallecchi, Firenze 1973

(5) Marcuse, "Saggio sulla liberazione", Einaudi, Torino 1969

(6) G. Cosco, Introduzione alla microfisica del potere, La Biblioteca di Babele, Modica 2002.

(7) G. Cosco, Op. citata

(8) G. Cosco, Op. citata

(9) G. Cosco, Op. citata

(10) Lenin, L’estremismo malattia infantile del Comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974

(11) G. Zinoviev, in: "Per conoscere Trotskij", a cura di L. Maitan, Mondatori, Milano 1972

(12) G. Allport, "La natura del pregiudizio", La Nuova Italia, Firenze 1973

(13) E. Severino, "Il destino della tecnica", Rizzoli, Milano 1998

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